La “Steppa Verde” di Svetlana e Rosa

Tratto da un più ampio servizio di Leanne A. Grossman, “A Matter of Life and Health: Villagers in Kazakhstan Fight Big Oil”
7 novembre 2011, per Women International Perspective, Trad. Maria G. Di Rienzo


Leanne A. Grossman è una scrittrice-viaggiatrice che ha documentato le prospettive e le preoccupazioni delle donne in Africa, Asia, Europa ed America Latina. E’ fra le fondatrici di “Girl Child Network Worldwide” che si occupa delle bambine vittime di violenza sessuale in tutto il mondo. 


Il tossico odore di uova marce soffia regolarmente sul villaggio rurale di Berezovka, in Kazakistan. I fumi vengono direttamente dal campo estrattivo di petrolio e gas di Karachaganak, a cinque chilometri di distanza: sono le emissioni di solfato d’idrogeno correlate all’estrazione ed alla raffinazione dei prodotti. Il campo è stato costruito dal  Karachaganak Petroleum Operating (KPO), un consorzio fra alcune delle più facoltose compagnie commerciali che si occupano di energia: LUKOIL (Russia), BG Group (Gran Bretagna), ENI Agip (Italia) e Chevron (Stati Uniti). Nel 1997 il KPO ha siglato un accordo con il governo kazako che permette le operazioni di raffinazione in loco.

Le circa 1.300 persone che vivono vicino all’impianto soffrono di emicranie e brividi, perdono i capelli, la loro vista si deteriora e sviluppano l’anemia. Svetlana Anosova, residente del villaggio, insegnante di musica, madre di tre figli e nonna di svariati nipoti, descrive altri problemi di salute che si pensa siano collegati ai cambiamenti ambientali imposti dall’impianto petrolifero: malattie ai reni, problemi digestivi, perdita dell’udito. Sua figlia è diventata epilettica, e lei teme che sia il risultato dell’inquinamento proveniente dal campo estrattivo, ma non può provarlo.

Poiché le strutture sanitarie locali sono limitate, Rosa Khusainova, direttrice della Casa della Cultura e madre di due figli, ha dovuto chiedere un prestito per pagare i trasporti e i costi relativi alle cure mediche della figlia, coperta da gravi eruzioni cutanee. Quando uno dei medici le ha chiesto perché non si trasferisce Rosa ha replicato: “Non ho il denaro per muovermi, ne’ un altro posto dove andare. Io sono di Berezovka, perché dovrei trasferirmi? E’ la compagnia petrolifera che se ne dovrebbe andare.”

Per nove lunghi anni Svetlana e Rosa hanno organizzato gli abitanti del villaggio affinché usassero ogni strategia legale accessibile per proteggere le loro famiglie e avere giustizia. Il solo raccogliere informazioni è una grossa sfida in un paese in cui gli uffici governativi sono storicamente costruiti sulla segretezza. Zhasil Dala (Steppa Verde), l’organizzazione che Svetlana e Rosa hanno fondato, ha dovuto condurre da sé le ricerche sull’avvelenamento dell’ambiente. L’inquinamento dell’aria non è l’unico problema. I residenti del villaggio hanno visto mutazioni nelle loro coltivazioni: il livello di cadmio nel suolo è almeno due o tre volte più alto del normale. L’avvelenamento da cadmio causa stordimento, mal di testa, debolezza, dolori al petto e infine edema polmonare. Anche gli alti livelli di nitrati preoccupano i residenti. Le emissioni provenienti dal campo estrattivo sono sospettate di aver aumentato tali livelli nelle fonti d’acqua e nel terreno. Quando gli abitanti del villaggio hanno mandato campioni d’acqua ad un laboratorio indipendente ad Orenburg, in Russia, i risultati hanno mostrato che essa non è potabile. I campioni di aria inviati ad un altro laboratorio indipendente in California hanno confermato la presenza di 25 elementi chimici tossici nell’aria di Berezovka.

La maggioranza dei residenti oggi vuol essere ricollocata in un ambiente pulito e sicuro, lontano dal campo d’estrazione. Tramite “Steppa Verde” hanno indirizzato proteste formali ed informali al consorzio ed al governo chiedendo che il loro diritto umano di vivere in una zona sana sia rispettato. Nel 2003, il  costante e coraggioso impegno di Svetlana Anosova attirò l’attenzione della BBC che all’epoca commentò: “Ciò che è certo, è che nell’ex Unione Sovietica ci sono migliaia e migliaia di persone come Svetlana che dal libero mercato non hanno avuto beneficio alcuno.”

Nel gennaio 2011, Serik Ilyasov, un lavoratore agli impianti, fu ucciso sul colpo (ed un suo collega gravemente ferito) quando un guasto agli idranti rilasciò una gran quantità di solfato d’idrogeno. Le indagini mostrarono che solo 25 idranti avevano dispositivi di sicurezza: nonostante la promessa che le operazioni a Karachaganak sono svolte usando la miglior tecnologia disponibile, il consorzio KPO non si cura della sicurezza dei suoi lavoratori più di quanto si curi della sicurezza dei residenti all’esterno del campo. Sebbene nel paese esista una legislazione che protegge l’ambiente, KPO la ignora. Quando le loro violazioni delle leggi ambientali diventano palesi, come nel caso delle improvvise eruzioni di gas, si appellano a cavilli burocratici per non far proseguire le cause legali, e persino quando sono condannati e devono pagare delle multe i soldi non arrivano mai ai residenti del villaggio: restano al corrotto governo nazionale. Perciò, il governo non ha alcun incentivo a fermare l’inquinamento facendo pressione sulle compagnie petrolifere affinché rispettino i regolamenti.

Lo scorso anno i residenti di Berezovka hanno avuto un’altra sorpresa: nel loro suolo si aprono crateri (un effetto che si sa associato all’estrazione di petrolio). “Adesso ho paura di vivere in casa mia.”, dice Nagaisha Demesheva, che ha scoperto un cratere nella sua piccola proprietà nel dicembre 2010. Immaginatevi se fosse successo alla villa di John Watson della Chevron o di Vagit Alekperov della Lukoil, il sesto uomo più ricco della Russia. E’ proprio vero che non siamo tutti eguali.

“Steppa Verde” ha tentato di aver giustizia tramite gli investitori del KPO. Ma dopo tre proteste formali alla Banca Mondiale, che ha prestato 150 milioni di dollari per il progetto petrolifero nel Kazakistan, Svetlana e Rosa hanno deciso che non perderanno più tempo a presentare il caso in simili uffici: hanno scoperto che per quanto i funzionari esprimano loro simpatia, nessuna azione concreta viene intrapresa per migliorare o risolvere la loro situazione. Dovendo fronteggiare oppositori a più livelli impiegano tecniche molteplici e  flessibili: ad esempio, alleandosi con “Salvezza Verde”, un’ong nonprofit del Kazakistan, il loro gruppo ha denunciato legalmente il governo per il fallimento nel proteggere i suoi cittadini. Due famiglie e un’impresa commerciale hanno vinto in tribunale il diritto di essere collocati altrove. E’ un precedente significativo, sebbene non ci siano ancora segni di implementazione della sentenza. Ad ogni modo, i residenti di Berezovka non saranno soddisfatti sino a che tutti non saranno ricollocati in un’area sicura, distanti dalle emissioni tossiche che stanno rovinando le loro vite.

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Aral, Cronaca della morte di un mare

Donne, guerra e pace

Di Abigail Disney, Trad. Maria G. Di Rienzo

L’11 ottobre scorso, commentando l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a tre donne, Abigail Disney ha presentato il suo nuovo lavoro. Abigail è l’autrice del film “Pray the devil back to hell” che documenta la lotta per la pace delle donne liberiane. Ora ha creato “Women, War and Peace”, una serie televisiva in cinque puntate che narra i ruoli delle donne nei contesti di conflitto armato, in onda dall’11 ottobre all’8 novembre.




Cinque anni fa, quando andai in Liberia, non avevo idea che il mio ruolo successivo sarebbe stato documentare e celebrare le donne che costruiscono la pace. Ma una storia di lotta e trionfo dopo l’altra, una storia di guida e sopravvivenza dopo l’altra, seppi che c’era qualcosa sotto la superficie della liberazione del paese che necessitava di essere portato alla luce.
Due anni più tardi, uscì il documentario “Pray the Devil Back to Hell”: parla di un gruppo di donne coraggiose ed ispirate – in semplici magliette bianche – che uniscono le loro forze attraversando regioni e religioni, per chiedere la pace. La loro leader, Leymah Gbowee, era  intuitiva e innovativa. I suoi piani brillanti, le sue tecniche semplici ed efficaci, ed il messaggio diretto: le donne liberiane vogliono la pace.

Oggi è un giorno di cui tener nota, che celebra donne notevoli. L’attivista e giornalista Tawakkul Karman è la prima donna araba a vincere il Premio Nobel per la Pace. E’ stata detenuta in Yemen all’inizio di quest’anno e ha detto che il riconoscimento a lei conferito è una vittoria per il suo paese e per l’intera “primavera araba”. Ellen Johnson Sirleaf è stata premiata con il Nobel per aver condotto in avanti un paese devastato. Leymah Gbowee ha vinto in nome di tutte le sue sorelle nei movimenti pacifisti dell’Africa occidentale.


Ci sono delle Leymah, delle Ellen e delle Tawakkul in tutto il mondo. Ed è sperabile che questo primo riconoscimento farà vedere quanto trasformative sono le donne per la pace e la democrazia. Dopo il documentario, ho capito quale era il mio compito: raccontare le storie delle donne che costruiscono la pace. Il risultato è “Women, War e Peace”, che va in onda sulla rete PBS. Nel costruire la serie televisiva con le co-creatrici Pamela Hogan e Gini Reticker, ho avuto il privilegio di conoscere alcune di queste costruttrici di pace.
Tramite loro, e tramite anni di ricerche, ho finito per comprendere cosa significa costruire la pace. Cosa connette le costruttrici nella decisione collettiva del creare la pace nei loro rispettivi paesi. Come individui sono tutte speciali ed uniche, ma come costruttrici di pace mettono radici nella somiglianza con le altre. Sono orientate all’azione, “fattrici”, creatrici. Coloro che costruiscono la pace si guardano intorno e non solo credono ci si possa muovere fuori dalla guerra e dal caos, ma prendono decisioni per portarci là. La pace è la scelta attiva di vivere in comunione con gli altri.
So che tutti noi possiamo svolgere un ruolo nei movimenti che costruiscono la pace. Possiamo essere tutti costruttori di pace: di taglia piccola, media o grande. Possiamo respingere l’estetica della violenza e l’infinita romanticizzazione del combattimento che sta alle fondamenta del complesso industriale hollywoodiano. Possiamo scegliere di agire. Imparare di più. Fare di più. Possiamo scegliere di vivere nella comunità globale costruendo pace.
Oggi è un giorno straordinario per le donne costruttrici di pace. Facciamo in modo che non sia l’ultimo.

Lettera aperta alle Nazioni Unite


Dobbiamo essere uniti. La violenza contro le donne non può essere tollerata, in nessuna forma, in nessun contesto, in nessuna circostanza, da nessun leader politico e da nessun governo.” Ban Ki-Moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Egregio Segretario Generale,
chi si permette di scriverle è una cittadina italiana che ha letto e riletto non solo quella sua dichiarazione summenzionata, ma gli innumerevoli impegni internazionali sottoscritti in tal senso dal paese in cui vive. A dar retta alle carte, dovrei trovarmi in un paese civile. Peccato che esso abbia la più alta incidenza europea di donne assassinate dalla violenza domestica: una ogni 2/3 giorni. Peccato che i Centri antiviolenza italiani abbiano cessato di essere finanziati e molti stiano chiudendo. Peccato che le immagini delle donne proposte dai media e dagli annunci pubblicitari italiani siano largamente sessiste e pornografiche. Peccato che una donna italiana, a parità di qualifica e mansioni, guadagni dal 10 al 18% in meno del suo collega di sesso maschile. Peccato che oggi, 6 ottobre 2011, si seppelliscano delle giovani donne morte sul lavoro: un lavoro “in nero”, fino a 14 ore al giorno per meno di quattro euro l’ora. Peccato che l’Italia detenga anche l’infame record della percentuale più alta di donne molestate sul lavoro in Europa. Peccato che, sulla scia di altre sentenze relative alla violenza sessuale che hanno già svergognato questo paese di fronte al mondo intero, di recente un tribunale abbia definito il palpeggiamento di studentesse minorenni da parte di un loro docente un mero “corteggiamento invasivo”.
Poiché questa è una lettera aperta, ripeterò in breve delle cose che le sono note, e cioè che la violenza è un modo per controllare le donne, sia nelle famiglie sia nella società, e tenerle in una posizione subordinata agli uomini, e che la violenza contro le donne non è accidentale: è strutturale, e perciò sono strutturali le soluzioni per eliminarla. Leggi inadeguate, immagini mediatiche negative, mancanza di servizi, compiacenza dei governi e assenza di programmi che affrontino le cause e le conseguenze della violenza di genere non fanno che aumentare la dose di violenza di cui le donne fanno esperienza.
La struttura della violenza, come lei sa, non nasce dal nulla e la sua crescita è un’escalation in cui, ad esempio, suggerendo che la prostituzione sia innocente divertimento per chi ne usufruisce e occasione di posizionamento sociale per chi la esercita, che comprare il corpo di una donna sia normale e lecito, e rappresentando ossessivamente le donne come oggetti sessuali, si crea il “contesto culturale” favorevole a ridurre donne e bambine a semplici giocattoli per gli uomini. E se poi il giocattolo si rompe, sig. Segretario, diventa difficile biasimare chi l’ha rotto: un giocattolo non è un essere umano.
Oggi, il nostro Presidente del Consiglio annuncia l’intenzione di cambiare nome al suo partito: potrebbe chiamarlo, dice, “Forza Gnocca”. Si tratta dello stesso uomo che spende centinaia di migliaia di euro l’anno per i suoi festini con prostitute, il proprietario di gran parte dei media in cui le donne sono per lo più pezzi di anatomia in mostra, l’autore di dichiarazioni volgari e offensive su altri capi di stato di sesso femminile e sulle donne in generale. I membri del suo governo e della sua coalizione non sono da meno. Potrà trovare riscontro di quanto le dico sulla stampa internazionale, qui mi limito a citarle il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali che, il mese scorso, “spiega” così, in pubblico, la manovra economica: “In un convento irrompono dei briganti e violentano tutte le suore. Una sola viene risparmiata. Perché ha detto di no.”
Suggerire che le donne desiderino lo stupro, che la violenza sessuale subita sia loro responsabilità e che potrebbero evitarla con un “no” è cosa, dicono i sostenitori del Ministro, di cui dovrei ridere. In Italia si stuprano 4 donne al giorno ed io non lo trovo divertente.
Considerato l’atteggiamento del governo italiano nei confronti della violenza di genere io credo che le Nazioni Unite, di cui l’Italia è stato membro, possano e debbano fornire ad esso almeno delle raccomandazioni, fra cui l’adozione del Piano antiviolenza divisato dall’Agenzia Donne delle NU. La prego, pertanto, di fare quanto in suo potere perché ciò avvenga. Una presa di posizione da parte di un organismo così autorevole potrebbe dar sostegno e speranza a chi lavora ogni giorno per mettere fine alla violenza e restituire dignità alle sue vittime.

Con profondo rispetto, Maria G. Di Rienzo

Wangari Maathai. Guarire la Terra, guarire noi stessi

Wangari Maathai, Premio Nobel per la Pace nel 2004, è scomparsa il 25 settembre 2011. In questo saggio tratto dal suo libro “Replenishing the Earth: Spiritual Values for Healing Ourselves and the World”, descrive cosa motivò il suo eccezionale lavoro. (Tratto da “Yes! Magazine”, 26.9.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Durante i trent’anni e più che ho passato come ambientalista e attivista per i diritti democratici, la gente mi ha spesso chiesto se la spiritualità, differenti tradizioni religiose e la Bibbia in particolare mi avessero ispirato, ed avessero influenzato il mio impegno o il lavoro con il Green Belt Movement (GBM). Consideravo la conservazione dell’ambiente ed il dare potere alla gente comune come un tipo di vocazione religiosa? C’erano lezioni spirituali da apprendere ed applicare agli sforzi ambientalisti o alla vita in generale?

Quando iniziai questo lavoro nel 1977 non ero motivata dalla mia fede o dalla religione in generale. Stavo invece letteralmente e praticamente pensando a come risolvere problemi concreti. Volevo aiutare le popolazioni rurali, in special modo le donne, a soddisfare le necessità di base che mi descrivevano durante i miei seminari e laboratori. Mi dicevano che  avevano bisogno di acqua pulita, potabile; di cibo nutriente in quantità adeguata; di reddito; di energia per cucinare e riscaldare.

Perciò quando mi facevano le domande sulla spiritualità, all’inizio, io rispondevo che non pensavo allo scavare buchi ed al mobilitare le comunità affinché difendessero o curassero gli alberi, le foreste, le fonti d’acqua e il suolo, l’habitat delle specie selvatiche, come a lavoro spirituale. Inoltre, non ho mai differenziato le attività “spirituali” e quelle “laiche”. Dopo qualche anno, sono arrivata a riconoscere che i nostri sforzi non erano limitati al piantare alberi, ma che stavamo anche piantando semi di un tipo diverso, quelli necessari per dare alle comunità la fiducia in se stesse e la conoscenza necessarie a riscoprire la loro vera voce ed a rivendicare i loro diritti (umani, ambientali, civili e politici). Il nostro scopo divenne espandere quello che chiamiamo “spazio democratico”, uno spazio in cui cittadini comuni possono prendere decisioni per se stessi a beneficio proprio, della propria comunità, del proprio paese e dell’ambiente che li sostiene.

In tale contesto, cominciai ad apprezzare il fatto che ci fosse qualcosa che ispirava e spalleggiava il GBM e coloro che partecipavano alle sue attività. Molte persone provenienti da gruppi e regioni differenti ci contattarono perché volevano condividere il nostro approccio con altri. Capii che il lavoro del GBM era guidato da alcuni valori intangibili. Essi erano: amore per l’ambiente, gratitudine e rispetto per le risorse della Terra, capacità di darsi potere e di migliorare se stessi, spirito di servizio e volontariato. Insieme, questi valori incapsulavano l’aspetto intangibile, sottile, non materialistico del GBM come organizzazione. Ci permettevano di continuare a lavorare anche quando i tempi si facevano difficili.

Naturalmente, so bene che tali valori non sono appannaggio del Green Belt Movement. Essi sono universali. Non possono essere toccati o visti. Non possiamo dar loro un valore monetario: in effetti, sono impagabili. Questi valori non sono contenuti in specifiche tradizioni religiose, ne’ uno deve far professione di fede per essere guidato da essi. Sembrano piuttosto essere parte della nostra natura umana, ed io sono convinta che siamo persone migliori perché li abbiamo, e che l’umanità è migliore avendoli piuttosto che non avendoli. Dove questi valori sono ignorati, li rimpiazzano dei vizi come l’egoismo, la corruzione, l’avidità e lo sfruttamento.

Nel processo in cui aiutiamo la Terra a guarire, aiutiamo noi stessi.

Per quel che posso dire attraverso le mie esperienze e le mie osservazioni, credo che la distruzione fisica della Terra si estenda anche a noi. Se viviamo in un ambiente ferito, dove l’acqua è inquinata, il cibo è contaminato da metalli pesanti e residui plastici, e il suolo è praticamente immondizia, ciò ci affligge, influisce sulla nostra salute e crea ferite a livello fisico, psicologico ed individuale. Degradando l’ambiente degradiamo sempre noi stessi.

Wangari Maathai

Acqua, donne e salute: il trio prezioso

“Life’s Precious Trio: Women, Water and Health”, di Elayne Clift per Ontheissuesmagazine, http://www.ontheissuesmagazine.com/ – Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo




La sua giornata comincia prima dell’alba. Cammina per oltre quattro miglia su sentieri dissestati per raggiungere un buco scavato a mano, dal quale raccoglie il fabbisogno d’acqua giornaliero per la sua famiglia. L’acqua è inquinata da moscerini, feci e animali. Nella stagione secca il percorso è periglioso, perché le pareti scoscese di fango collassano e feriscono le donne e le bambine che vengono a prendere la preziosa acqua anche due volte al giorno. Quando arriva a casa, portando sulla testa un orcio che pesa quanto un cucciolo di giraffa, è esausta. La notte cammina fino alla latrina, al buio, e rischia aggressioni sessuali.

Questa è la vita quotidiana di molte donne, come lo era per la tanzanese Nakwetikya prima che un’ong con base in Gran Bretagna, Water Aid, installasse un pozzo nel suo villaggio. “La situazione era tremenda.”, dice Nakwetikya, “Non c’era acqua e scavavamo buchi per trovarne un po’. Le mie gambe cominciavano a tremare dalla paura prima ancora che mi calassi in quei buchi. Ma non c’era scelta. Se non trovavo l’acqua la mia famiglia non poteva mangiare, lavarsi e neppure bere un sorso.”

La mancanza di acqua e di impianti sanitari ha un impatto enorme sulle vite di milioni di donne nel mondo. In un solo giorno, più di 200 milioni di ore sono spese collettivamente dalle donne nel raccogliere acqua per uso domestico. E più di 600 milioni di donne vivono senza acqua sicuramente potabile e senza le necessità igieniche di base. L’accesso all’acqua influisce sulla salute delle donne in svariati modi. Soffrono dolori alla schiena, spine dorsali ricurve e deformità pelviche date dal trasportare grossi contenitori d’acqua sulla testa. Ironicamente, sono spessissimo disidratate. Sono soggette a contrarre malaria, diarrea e parassiti. Tutte malattie che hanno a che fare con il loro ruolo di cura, e che possono essere prevenute migliorando l’accesso all’acqua ed agli impianti sanitari, e maneggiando meglio le risorse.


Per far questo, le donne devono sedere al tavolo decisionale: sono loro a sapere di cosa c’è bisogno per rendere l’acqua sicura ed accessibile. I progetti che sono stati realizzati con la piena partecipazione delle donne si sono dimostrati i più sostenibili ed i più efficaci. “Poiché sono le principali utilizzatrici dei futuri pozzi, le donne sono in grado di decidere meglio la posizione di una fonte d’acqua, ed hanno una conoscenza cruciale nel pianificare gli stadi dei lavori, perché sanno dove l’acqua è più vicina, dove è più pulita, e dove le fonti si stanno esaurendo.”, spiegano a “Water Aid”, “A loro noi indichiamo misure igieniche, come il coprire l’acqua immagazzinata e l’usare rastrelliere per tenere piatti e utensili sollevati dal terreno.”

Lo status economico e sociale delle donne è in relazione anche all’accesso all’acqua pulita, in modi che sono d’importanza vitale in una prospettiva di genere. Se le bambine non devono più andare a prendere acqua possono andare a scuola, e se la scuola ha toilette decenti le ragazzine mestruate possono restarci. Le donne che hanno famiglie non oppresse da malattie correlate all’acqua possono lavorare al mercato e nei campi, migliorando il reddito familiare. Inoltre, possono assumere maggiori responsabilità all’interno della comunità, come Nakwetikya stessa testimonia: “Da quando abbiamo questa nuova fonte d’acqua la vita è cambiata in modo straordinario. Il mio status come donna ha avuto finalmente un riconoscimento (perché fa parte del “comitato acqua”, nda). Prima, gli uomini ci consideravano alla stregua di pipistrelli che svolazzano in giro. Nessuno ci permetteva di parlare o ascoltava quel che dicevamo. Adesso, quando mi alzo per parlare non sono un animale. Sono qualcuno che ha un’opinione valida.”

Le Nazioni Unite stimano che, entro il 2025, 48 paesi per una popolazione di 2 miliardi e 800.000 persone soffriranno per scarsità di acqua potabile. In questo momento, meno dell’1% dell’acqua corrente e potabile è accessibile all’uso umano diretto. La tendenza alla privatizzazione dell’acqua è pure preoccupante, perché ne innalza i prezzi e ne peggiora la distribuzione. Le donne restano nel quadro il segmento più vulnerabile, sia perché spesso lavorano in settori informali e non hanno le risorse per comprare acqua in mercati competitivi, sia perché appunto la privatizzazione rende l’acqua accessibile ancora più scarsa. Inoltre, sino a che i paesi industrializzati continuano ad inquinare fiumi ed altre fonti d’acqua con pesticidi e rifiuti tossici, le persone più povere del mondo – le donne – soffrono le conseguenze delle loro azioni mentre tentano di aver cura delle proprie famiglie. E’ per questo che ascoltare le loro voci, a tutti i livelli di governance, è così importante.

Determinazione e dignità



CAMFED – Campaign for Female Education è un’ong internazionale fondata da Ann Cotton nel 1991, con lo scopo di promuovere l’istruzione femminile in Africa. Nell’Africa sub-sahariana 24 milioni di bambine non possono permettersi di andare a scuola. Una ragazzina può essere moglie a 13 anni ed avere una probabilità su 20 di morire partorendo. Uno su sei dei suoi eventuali figli morirà prima di aver compiuto 5 anni.


Ma se una ragazza va a scuola guadagnerà il 25% in più con il suo lavoro e ne reinvestirà il 90% nella sua famiglia; avrà tre volte meno probabilità di diventare sieropositiva: avrà un minor numero di figli che saranno più sani ed avranno il 40% di probabilità in più di passare i cinque anni d’età.


Grazie al sostegno di Camfed, 602.405 bambine (e bambini) sono andate a scuola e 20.216 giovani donne hanno dato inizio a imprese economiche proprie. Le ex beneficiarie hanno anche fondato un’associazione interafricana affiliata, Cama, che ha di par suo mandato a scuola altre 161.300 bambine. Quella che segue è la storia di una di loro, Abigail Kaindu, raccontata dalla giornalista Brina Manenga per “The Post”, Zambia, il 13.9.2011. 
Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo


Mentre cresceva  nel villaggio di Chitembo, provincia di Luapula, la vita sembrava senza speranza ad Abigail Kaindu e l’avere un’istruzione un sogno lontano che non sarebbe mai diventato realtà. Ma grazie alla sua determinazione, Abigail ha pian piano realizzato quel sogno: in ottobre otterrà il suo diploma in economia, e nel suo villaggio questa 23enne è diventata un modello per molte giovani e giovanissime. Nella zona rurale in cui vive, Abigail ha sperimentato la povertà e il rigetto. Aveva 7 chilometri da fare ogni giorno a piedi per arrivare a scuola, ma ogni ostacolo sulla sua strada non faceva che rafforzarla nel suo convincimento che l’avere un’istruzione coincideva con la sua liberazione.

“La mamma morì quando io ero in terza elementare, e non ho mai incontrato mio padre. Mia nonna, che mi ha allevata, non poteva pagare le tasse scolastiche.”, ricorda Abigail. Nonostante tutto, la ragazza riuscì ad ottenere il diploma delle medie, ma la disponibilità economica della famiglia non poteva andare oltre.
“Allora pensavo che la mia vita fosse finita e tutto ciò che desideravo perduto. Avevo implorato il preside di lasciarmi presenziare alle lezioni anche dopo essere stata cacciata via perché non potevo pagarle: lui acconsentì ed anche se era difficile non ne mancavo mai una, è così che mi sono diplomata alle medie.”

Quando le ragazzine al villaggio lasciano la scuola, il passo successivo è quasi sempre il matrimonio, ma Abigail non voleva prendere quella via: “Camminavo con le lacrime agli occhi ogni giorno. La gente del villaggio diceva che perdevo tempo a crucciarmi per la scuola, e che sposarmi era la scelta migliore, ma sposarmi era l’ultima cosa a cui io pensavo.” Fu allora che Abigail venne a sapere del programma di “sponsorizzazione” di Camfed. “Fui la prima a registrarmi durante l’anno scolastico. Poi passò un po’ di tempo e avevo smesso persino di pensarci, ma durante le vacanze mi giunse la comunicazione che ero stata scelta. Ho pianto e pianto, non potevo crederci.”

Abigail è stata sostenuta sino al livello universitario ed è determinata a sollevare la sua famiglia dalla miseria: “Mi rende orgogliosa essere quella su cui si può contare. Moltissime ragazze al villaggio vogliono seguire il mio esempio, ora. Io sono la testimonianza vivente di ciò che l’istruzione può fare.”

La sua gratitudine va ovviamente a Camfed, ma c’è una persona che l’ha sostenuta in maniera particolare: “Sono molto riconoscente a mia nonna, che ha sacrificato il suo matrimonio per aver cura di me e di altri due orfani che ha allevato. Il nonno non voleva che vivessimo con lui, era solito dire che gli consumavamo il cibo. La nonna lo ha lasciato perché non voleva permettergli di cacciarci di casa.”

Il suo messaggio alle ragazze è questo: “Siate sempre concentrate e decise. La gente continuerà a dirvi che non potete farcela, ma invece potete eccome. Aprite il cuore alle opportunità e afferratele con dignità.

Io ti amerò comunque

Tratto da “Open Letter to My Unborn Daughter (or Son)”, di Staceyann Chin, scrittrice, poeta, attivista, 23.8.2011 – The Huffington Post. Trad. Maria G. Di Rienzo




Cara Figlia (o caro Figlio),

alcune persone sono preoccupate. (…) Pensano che sapere troppo sul tuo padre biologico, o saperne troppo poco, o avere una madre apertamente omosessuale, o due, ti causerà dolore non necessario. Ho preso in considerazione i loro input ed ho deciso di scriverti una lettera aperta su tutto questo.

Comincio con il riconoscere che ci saranno difficoltà nella tua vita: ognuno ne ha. E il mondo in cui viviamo è crudele, ingiusto e zeppo di diseguaglianze che tu finirai per conoscere sin troppo bene perché (ma non solo) sarai nera, figlia di un’immigrata lesbica rompiscatole, casinista e dissidente. La tua vita non comincerà in una condizione economica di benessere. E il modo in cui sei stata concepita ha dato inizio ad accese discussioni in cui i perfetti sconosciuti come gli amici hanno mostrato quanto sia complicato essere umani ed essere vivi nell’era dell’informazione.

Sono passati tre mesi da quando ho visto quella sbiadita seconda linea sul test di gravidanza fatto in casa. Non so bene cosa mi aspettassi, ma certamente non una corsa in salita contro il mio stesso corpo. Non voglio contrattare su questo. Sapevo bene che avresti cambiato la mia vita. Solo, non sapevo in che misura, ne’ quanto mi sarei sentita sola a percorrere questa strada senza una partner.

Non fraintendermi. Non ho alcun rimpianto. Lo rifarei immediatamente se questo significa che poi esploreremo questa vita in continua evoluzione insieme. Sto già meglio per l’aver deciso di cominciare il viaggio che mi porterà ad avere una famiglia. La speranza è tornata nel mio cuore. Sono in grado di veder miracoli nella vita quotidiana, di scoprire la celebrazione della più piccola delle vittorie. Ed ogni giorno in cui mi sveglio respirando, e tu fluttui dentro di me, sono grata e cerco modi di dimostrarlo.

Temo però di non star maneggiando gli aspetti fisici della gravidanza molto bene. Tutto in me sembra incerto, fluente: la mia pelle, il mio stomaco, i miei seni, le mie papille gustative, le mie viscere, le mie emozioni, la mia capacità di mangiare quello che desidero: ogni aspetto di me è diventato un imprevedibile allarme, qualcosa che minaccia ogni volta di andar storto. L’unica cosa che mi mantiene sana di mente e in grado di sopravvivere a qualsiasi disastro è la volontà di diventare tua madre. (…) Ma ti devo dire che quelle immagini di donne incinte che ho visto sui magazine e sui siti web sono decisamente fuorvianti. Io non ho avuto un singolo momento che assomigli alla calma totale di cui sono infuse. Da mesi, ormai, rigetto un pasto su due. Non riesco a dormire più di due ore consecutive, perché devo alzarmi a fare la pipì 4 volte per notte.
Nulla di piccante è passato attraverso le mie labbra giamaicane da dio sa quando. Posso passare dal sentirmi sazia al sentirmi affamata in tre minuti – e se non mangio immediatamente i conati di vomito che seguono mi lasciano a stento in grado di respirare distesa sul pavimento del bagno. I miei movimenti intestinali assomigliano un po’ all’economia mondiale: sforzi volonterosi largamente inutili.

Sto anche avendo i più creativi degli incubi. (…) Ho sognato di mettere al mondo un cucciolo, un pappagallo, un libro di poesie ed un bambino con la faccia (e le politiche) di George W. Bush. Alcune notti ho persino paura di addormentarmi, di sognare un qualche nuovo orrore da cui non riuscirò a svegliarmi. Sopporto tutto questo senza che ci sia nessuno a carezzarmi la schiena e i capelli, ad abbracciarmi gentilmente ricordandomi che gli incubi non sono reali. Perciò ogni volta in cui vedo la fotografia di qualche donna incinta con le mani posate soavemente sul ventre gonfio, che esibisce quel sorriso beato, sento l’urgenza di lottare con lei rotolando a terra, e di chiederle perché sta perpetuando la bugia che la gravidanza sia un processo privo di stress, in cui le donne diventano l’immagine della gioia perfetta. (…)

Inoltre, sono ossessionata dalle tue piccole mani, piedi e orecchie che si sono già formate dentro di me. Mi chiedo se tutto è come dovrebbe essere. E mi domando se sono già una cattiva madre a concentrarmi sulle dita, le ciglia o i reni che potresti avere o non avere. Inutile dirlo, in questo momento sono un completo disastro. Mi arrovello su qualsiasi cosa. Voglio che tu arrivi con tutte le tue parti al posto giusto. Voglio tu sappia che – nonostante quel che la gente dice del tuo concepimento tramite fecondazione assistita – io ti amo già, e mi preoccupo per te, e voglio il meglio per te. Voglio tu sappia che ho fatto una pletora di errori in vita mia, che ho urtato amanti, cugini e amici ed estranei. Non sono perfetta, e desidero scusarmi per tutti gli errori che ho già fatto con te, in special modo per quelli di cui non sono neppure consapevole.

E vorrei fare un patto con te: che tu ed io si sia d’accordo sull’essere comprensive, leali ed oneste, e piene di compassione l’una per l’altra, e per le persone che non sono proprio come noi vorremmo che fossero. Mi piacerebbe se tu ti unissi a noi nel contrastare gli ignoranti pieni di odio che vogliono togliere alle donne i diritti riproduttivi, o che etichettano e valutano le persone basandosi sul colore della loro pelle, o su che compagni scelgono, o sulla parte di mondo da cui provengono. Crescendo, ti accorgerai che persone spaventose e potenti hanno ridotto ad una parodia il nostro bellissimo pianeta, e che le ideologie socio-politiche che controllano i nostri modi di vivere sono di mente ristretta e condite di bigottismo.

Sarebbe una dolce vendetta crescere una figlia o un figlio che durante la sua vita tenterà di disfare tutto questo. Ma ti prometto che anche se sceglierai di non farlo, io ti amerò comunque. Ce la metterò tutta nel sostenerti mentre ti farai strada nel mondo; tenterò di sorridere prendendo un morso dal tuo sandwich mezzo mangiato e pieno di saliva; ti festeggerò in ogni caso, che tu sia no al primo posto; sarò presente nei momenti importanti della tua vita e ti lascerò sempre spazio per esplorare ciò che vuoi essere.

Creatura mia, queste promesse sono solo ciò che io intendo fare. Ti garantisco il permesso, quando verrò meno a queste grandiose intenzioni, di sventolarmi davanti questa lettera e di ricordarmi cos’ho scritto molto tempo prima che tu nascessi. Con amore, e nella speranza che tu arrivi sana e salva, tua madre Staceyann Chin.